Quando mangiamo alimenti come vegetali, latte e suoi derivati noi proviamo un senso di appagamento e benessere.
Dove hanno origine queste sensazioni? Nell’area limbica dove agiscono le endorfine, sostanze prodotte dal cervello che sono responsabili della sensazione di bisogno e ci stimolano a cercare il piacere attraverso il cibo.
Le endorfine sono così potenti da spostare addirittura la soglia del dolore: in questo caso nel sistema limbico viene liberata la dopamina. E’ il meccanismo che ci permette di accettare di buon grado anche la dieta, a patto che dopo un certo periodo di sofferenza sia possibile ottenere risultati soddisfacenti.
Ogni stimolo proveniente dall’ambiente esterno provoca in noi un mosaico di emozioni e pensieri: i neuropeptidi (la gastrina e la colecistochinina, ad esempio) hanno il compito di trasportare tali sensazioni e di condizionare il nostro comportamento, proprio come fa la mente. A tutti noi sarà capitato, almeno una volta, di essere sorpresi da improvvisi attacchi di colite, che in determinate circostanze sono addirittura impossibili da contenere.
Shachter e Singer, fra i pionieri negli studi del comportamento, nel 1962 effettuarono un esperimento per analizzare il rapporto tra la mente e il corpo. Gli psicologi statunitensi presero in esame due gruppi di persone: al primo iniettarono una dose di adrenalina, facendogli credere che si trattasse di una semplice vitamina per migliorare la vista; al secondo somministrarono un’iniezione apparentemente uguale, ma nella fiala c’era solo del placebo.
I pazienti di entrambi i gruppi vennero informati con tre diverse modalità:
1. Alcuni furono avvisati degli effetti collaterali dell’adrenalina (palpitazioni, tremori), pur senza svelare la sostanza
2. Altri non ricevettero informazioni
3. Ad altri ancora furono date informazioni fuorvianti, indicando come effetti collaterali prurito o cefalea
Dopo l’iniezione, tutti i pazienti furono accompagnati in stanze separate dove erano presenti psicologi dello staff, che avevano il preciso scopo di agire da provocatori. Alcuni provocatori si mostrarono euforici o aggressivi, altri denunciarono pruriti e nausee; la situazione era monitorata mediante cineprese nascoste dietro gli specchi finti di ogni stanza.
Il primo gruppo di pazienti (1), sottoposto all’iniezione di adrenalina e correttamente informato degli effetti collaterali, dimostrò di non essere quasi influenzato dal comportamento dei provocatori. Risultati opposti per i pazienti che non erano stati informati (2) o che avevano ricevuto informazioni fuorvianti (3): molti di loro riferirono di essersi sentiti euforici o aggressivi, in base al tipo di provocatore a cui erano stati abbinati.
Il dato più rilevante è che questo tipo di sensazioni erano diffuse nella stessa misura sia nei pazienti sottoposti all’iniezione di adrenalina, sia in quelli a cui fu somministrato il placebo. Morale della favola: una cura può fare tanto, ma gran parte del risultato dipende dall’idea che noi ci siamo fatti della cura stessa. Siamo tutti molto influenzabili…
Bibliografia:
Schachter, S. & Singer, J. E. (1962), Cognitive, Social, and Physiological Determinants of Emotional State, Psychological Review, 69(5), 379-399.
Sander L. (1983) To begin with-reflections on outogeny. In: Lichtenberg J.D., Kaplan S. Reflections on Self Psychology. The Analytic Press, New York, pp. 85-104.
Johnson M.H., de Hann M. (2000), Developing cortical specialization for visual cognitive function: The case of recognition, in Mechanisms of cognitive development: Behavioral and neutral perspectives, J.L. McClelland, R.S. Siegler, Hillsdale, NJ: Erlbaum.
PIACERE E DOLORE
Con metodi più scientifici e un po’ di fortuna, nel 1954 il dottor James Olds fece una grande scoperta studiando il comportamento di topi da laboratorio. Lo scopo di Olds era quello di verificare come una serie di impulsi elettrici nel cervello dei ratti generasse negli animali dei comportamenti di avversione. Per una fortunata casualità un elettrodo venne posto nell’ipotalamo.
L’esperimento prevedeva di inviare una scarica elettrica ogni volta che il topo si fosse avvicinato a un angolo della gabbia in cui era rinchiuso. La sorpresa è presto detta: dopo ogni stimolazione elettrica l’animale non fuggiva, anzi era sempre più spinto ad avvicinarsi alla gabbia per “averne ancora”. Lo stimolo elettrico della ricompensa pare realizzarsi nella parte anteriore dell’encefalo; per questo motivo utilizzando un elettrodo è possibile far mangiare ancora un animale già sazio.
E siccome le sorprese non finiscono mai, nel 1976 anche gli studiosi Rowland e Antelman fecero una scoperta sconcertante analizzando il comportamento alimentare dei ratti. L’esperimento prevedeva di applicare una pressione, apparentemente non dolorosa, sulla coda dell’animale per due volte al giorno. Il risultato fu inatteso. I topi aumentarono la loro quantità giornaliera di calorie del 129% rispetto a quelli non sottoposti al trattamento.
Recenti studi comportamentali confermerebbero che uno stress prolungato ma poco aggressivo possa causare un aumento incontrollato dell’appetito anche nelle persone. L’obesità e le sue conseguenze sociali negative possono determinare lo stesso tipo di stress: il risultato è un continuo e ossessivo senso di appetito che innesca un circolo vizioso da cui è difficile uscire.
Le analogie fra gli esperimenti da laboratorio e la nostra vita quotidiana non finiscono qua. Gli studiosi Koob, Fray e Iversen applicarono lo stesso fastidioso stress alla coda del ratto: l’animale era così indotto a correre attraverso un labirinto per rosicchiare un tronchetto di legno per distrarsi. Lo stesso bisogno era assente nei ratti non sottoposti a stress.
Anche noi siamo indotti a comportamenti analoghi per combattere lo stress: il neonato trova pace col succhiotto, mentre la stragrande maggioranza delle persone fa uso di gomme da masticare, si rosicchia le unghie, mangia caramelle o fuma ripetutamente. Questo bisogno orale compulsivo è al tempo stesso malattia e autoterapia: a volte è causato da un disagio psicologico, ma spesso è dovuto alla necessità di stimolare l’area limbica, che più è stimolata e più ha bisogno di esserlo.
Per riconquistare un corretto stile di vita la strategia migliore è cercare (e trovare) il piacere in attività che ci distraggano dal bisogno di mangiare. L’attività fisica, il movimento di breve durata ma cadenzato sui pasti assieme al rispetto di semplici regole sono alcune di queste.
Siamo così di fronte a un bivio. Meglio la visione epicurea del “Cogli la vita e fregatene” oppure è preferibile quella stoica che nega il bisogno: “Più ricco di chi possiede un bene è colui che non lo desidera”? A definire il confine tra il malato e il sano non è il racconto del paziente, ma soltanto dati clinici oggettivi.
Il comportamento alimentare è patologico nelle persone afflitte da uno stato di obesità cronica, che non riescono a dimagrire da sole e a mantenere un peso corretto. Facciamo degli esempi. E’ la glicemia, cioè la quantità di glucosio nel sangue, a stabilire il confine tra il goloso e il diabetico. Allo stesso modo è l’obesità, intesa come elevata percentuale di grasso nel corpo, a indicare il nostro stato di salute o di malattia.
Può essere utile raccontare la vicenda di una cara paziente, Luisella, che grazie a una lunga e travagliata cura è riuscita a ottenere un risultato estetico apprezzabile. Luisella dirige un negozio di arredi per bagno e piastrelle; il lavoro va bene, ma lo stress quotidiano è alto e il tempo per pensare alla propria salute è sempre poco. Come spesso accade, a fine giornata una birra e un piatto di pasta sembrano essere l’unico rimedio alle difficoltà. L’importanza della terapia entra in gioco proprio adesso: il suo obiettivo è rendere meno duro il “difficile mestiere di vivere”, come poetava il Montale. Per vincere abitudini consolidate, però, servono determinazione, volontà e voglia di cambiare le cose.
Durante una visita di controllo vedendola molto più curata, addirittura abbronzata per la volontà di piacere, ci complimentammo con lei per i progressi fatti. L’ammissione di Luisella fu disarmante: “Il vero piacere, finalmente, è potermi comprare una gonna decente”.
Come riuscire a sostituire la gratificazione data da vegetali (come pane, vino, nutella, ma anche sigarette), latte e latticini col piacere di guardarsi allo specchio? Come ritrovare il piacere di esporre il proprio corpo? Il primo passo da fare è capire che è importante avere un aspetto curato non per gli altri, ma per se stessi.
Spesso invece il nostro atteggiamento è a dir poco distruttivo. “Io sono così e basta!”: questa è la risposta che spesso diamo a chi ci esorta ad avere cura del nostro corpo. Nel rapporto fra uomo e donna si insinua addirittura il dubbio che ci sia una certa frustrazione da parte del coniuge. In questo caso il campionario di risposte è quasi sempre lo stesso: “Vuoi una donna più magra? Allora vattela a cercare!”, oppure “Hai sempre voluto un tipo più aitante, sei la solita”. Lo sbaglio più grande, in questi casi, è nascondere la bilancia nell’armadio per il quieto vivere.
In molti casi consideriamo problemi come l’alcolismo, il tabagismo o la febbre per il gioco d’azzardo delle vere e proprie malattie, ma non concediamo la stessa attenzione ai nostri comportamenti alimentari. Spesso riteniamo più grave perdere dei soldi per una scommessa piuttosto che acquistare chili di troppo. Sbagliato. Dobbiamo considerare i disturbi alimentari alla stregua di una qualsiasi malattia del comportamento.
Bibliografia:
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