Correva il 4 aprile 1986. Ero reduce da un Congresso in quel di Mosca, dove pane e burro con caviale, salmone e storione affumicato, unitamente a vodka miscelata con uno champagne caucasico un po’ della mutua, avevano supplito alle carenze della cucina russa per un buongustaio italiano, Presidente di una Associazione Gastroenologica, non abituato a piatti dell’Est ricolmi di pecora e montone e cosparsi da intingoli di sapore forte e dolciastro.
I vestiti taglia 66 erano diventati ancora più stretti, i bottoni della giacca scoccavano come dardi, le vene del collo rigonfiavano turgide mal sopportando un colletto ormai divenuto terribilmente inadatto.
Nella notte, dormendo sul dorso, un ennesimo attacco dispnoico, con il diaframma che comprimeva l’enorme cuore da ex atleta, mi aveva ancora una volta di più convinto e impaurito di come deve essere tutt’altro che simpatico morir soffocati.
Il russare di notte e gli episodi di apnea, la “sleep-apnea-syndrome”, che frequentemente s’instaura negli obesi, erano diventati ormai di routine.
Vi posso assicurare che il risveglio in apnea è allucinante come lo è compiere spasmodici e forzati atti respiratori per riossigenarsi.
All’alba, dopo la doccia, presi il coraggio a quattro mani e saltai sulla povera bilancia guardando l’ago con un solo occhio. Senza neppur emettere un gemito per l’immane impatto quel dannato strumento di misura sentenziò: 146 kg. Eravamo ai limiti della sua pur rispettabile portata.
Fu in quel preciso momento che una forza interiore mi fece odiare come non mai il mio corpo sfasciato e mi convinse a tentare, questa volta con volontà teutonica, l’ennesima cura dimagrante. Per me era l’ultima spiaggia. Si, perché è bene che si sappia che, dopo una gioventù con un corpo snello e armonioso che svettava a un metro e novanta, deposta la spada e abbandonato l’agonismo sportivo, l’adipe cominciò sornione ad accumularsi sul mio ventre e sul mio collo, lasciando però immutati gambe, braccia e fondo schiena.
Gli anni di Università in quel di Parma con i succulenti tortelloni di magro del rinomato ristorante “Aurora” innaffiati dall’ottimo lambrusco della Casa e i golosi piatti preparati da mia madre che, seppur torinese, aveva appreso tutti i segreti della cucina piacentina, avevano fatto scempio del mio corpo. A 28 anni, andando sposo a Torino, toccavo i 100 kg, che diventavano 110 a 30 anni, per stabilizzarsi poi con molti alti e bassi sui 130/135 kg dai 35 anni in poi.
Disordini alimentari, abbuffate in pantagrueliche cene associate all’ingestione incontrollata, e ormai divenuta una libido, di decine e decine di bibite, mi avevano stabilizzato il tasso glicemico intorno ai 110, perennemente in uno stato prediabetico legato all’obesità, con una curva glicemica però sempre perfetta.
La sete era sempre tipo “deserto” e a Torino era noto che, organizzando una serata in casa, si preparavano due frigoriferi ricolmi di bibite, uno per Giorgio Re e uno per gli altri 45 invitati. Al bar della Clinica Odontoiatrica, all’ora dell’aperitivo, 12 panini imbottiti vivevano il sogno di una notte di mezza estate. L’attuale nuovelle vague di giovani paninari ne sarebbe certamente uscita sconfitta.
Ricordo il Congresso di Napolidel 1962. Dopo un’abbuffata da Giuseppone a Mare con ogni portata triplicata, venne la sfida con l’amico Stroffolini. In una pasticceria a Santa Lucia vinceva chi ingurgitava il numero maggiore di babà grandi come un pugno. Fungeva da arbitro l’amico Giancarlo Valletta. Davanti a una trentina di congressisti attoniti persi la sfida, cedendo al sedicesimo babà.
Da sempre la mia massima aspirazione era di pasteggiare a champagne come soleva fare Re Faruk, stroncato alla “Belle France”con dodici ostriche royal e una coppa di Dom Perignon in mano.
Mi sovviene della notte della scossa di terremoto. Ero arrivato dopo la mezzanotte a Bordighera. Una torrida notte di luglio. Subito guadagnai il letto stravolto dalla dura giornata di lavoro e dal viaggio nella calura sul 2300 Fiat senza aria condizionata. Come un automa in pieno sonnambulismo arrivai più volte al frigo in cucina ingurgitando d’un fiato una aranciata amara dopo l’altra. Quando alle 5:57 la scossa di terremoto ci catapultò sulla strada fra bellocce tedesche ignude del Meublé di fronte, mia moglie amaramente contò sedici vuoti.
L’aver avuto il mio primo studio in quel di Barge, paese dei miei avi, mi aveva fatto diventare un habitué della Trattoria della Posta di Cavour, detta anche dei Grassoni, dove la signora Genovesio mi coccolava nei miei spuntini solitari, prima dell’andar a curar i denti, con ripetute dozzine di agnolotti piemontesi, con tartufi in stagione, cotechini caldi troneggianti su carrelli di carne lesse miste, il tutto innaffiato da un Barbera paragonabile al nettare degli dei. Un budino fatto esclusivamente di panna e uova doveva aiutare la lenta discesa della montagna di crauti e salse verdi con generoso aglio ingerite come contorni ai lessi misti.
Un altro record l’avevo conquistato alle Seychelles, dove, ospite di amici bolognesi, avevo placato i bruciori della cucina creola delle quattro negrette, scolandomi una trentina di birre al giorno, stante la mancanza di vino e l’imbevibile acqua gassata preparata dal padrone di casa.
Rimorsi di coscienza ne avevo avuti tanti! Rimbrotti a catena da mia maglie, pure. In trent’anni, di diete dimagranti ne avevo avute a iosa, sempre cominciando il lunedì.
Avevo vissuto a pompelmi, a limoni, a otto uova al giorno, con i pasti ipocalorici in bustine, con la dieta di Beverly Hills, con la cura dell’uva, con la dieta vegetariana, con cure a base di pillole, lassativi e diuretici, con la dieta del fantino, con la dieta a punti reclamizzata da un giornale femminile.
Avevo ingerito tonnellate di filetti alla brace (che nausea!), con montagne di insalata mal condita senza olio; mi intestardivo con le diete dissociate, sapendo che al martedì e al sabato a mezzogiorno mi veniva rifilata la solita macedonia di frutta, al mercoledì il tonno in scatola, alla sera il petto di tacchino americano allegato in batteria e il venerdì l’insipido filetto di sogliola cotta al vapore. La nurse inglese di mio figlio, che diciottenne presentava un fondo schiena oceanico, tipo eliporto, mi aveva plagiato facendomi vivere come lei con 12 nauseanti banane al giorno.
E non parliamo di farmacopea! Con rischio e pericolo per il mio equilibrio fisico e psichico avevo provato decine di anoressizzanti, molti dei quali a base di anfetamina, subito abbandonati per diventare nevrastenico, insonne e insopportabile.
Ero poi passato alle capsule e alle cialde da ingerire mezz’ora prima dei pasti per riempire lo stomaco e allontanare gli stimoli della fame. Di norma per me fungevano da aperitivo e mi sedevo al desco più affamato di prima. Non avevo scordato di provare farmaci che avrebbero dovuto divorare il sovrappiù degli zuccheri circolanti nel mio corpo e non fagocitati da un pancreas sonnolento e con tanta poca voglia di lavorare.
Ma torniamo al fatidico aprile dell’86. Una cara amica mi aveva dato l’indirizzo di un ennesimo dietologo. Aveva lo studio in un paesino della cintura torinese. Telefonai per un appuntamento che con deliziosa cortesia mi venne concesso per la sera stessa.
Fu così che, dopo una non certo distensiva seduta al consiglio della Facoltà di Medicina, con scarsa fiducia arrivai a None dal Dott. Claudio Saluzzo. Le 5 de la tarde erano passate già da un pezzo, ma la sala d’attesa rigurgitava di pazienti.
Fatto subito passare, sgusciando, si fa per dire, da una porta laterale, dopo pochi istanti ero di fronte al mio uomo. Giovanissimo, occhialini d’oro, camice verde tipo Huston, papillon alla francese, mi accolse molto gentilmente dandomi del tu. Mi fece spogliare, sedere sul lettino, e solo allora ebbi la netta sensazione che a quel Collega trentenne sbarbatello dovevo fare letteralmente schifo! Mi praticò l’elettrocardiogramma, mi misurò la pressione, martellandomi le ginocchia si rese conto dei miei riflessi, analizzò accuratamente gli esami di laboratorio che avevo portato con me e, con argomentazioni che subito mi avvinsero, centrò con immediatezza sconcertante il mio problema.
Tutto quanto avevo fatto in precedenza nel vano tentativo di alleggerirmi di un po’ di lardo era stato completamente inutile e soprattutto errato. La mia obesità doveva essere curata come una malattia vera e propria e non solo con una dieta ipocalorica che per anni non aveva sortito effetto alcuno e soprattutto mi faceva tornare allo statu quo ante non appena riprendevo a gustare due penne all’arrabbiata.
Rimasi letteralmente affascinato dalla scientificità delle sue argomentazioni, improntate su basi psicologiche estremamente convincenti e su di uno spirito di osservazione clinica veramente strabiliante. Ero andato da un dietologo, ma avevo trovato un medico, che con una visione multidisciplinare si accingeva a studiare il funzionamento del mio pancreas, del fegato, della tiroide, dei miei ormoni, non tralasciando la valutazione del mio equilibrio psichico e dei miei problemi, prima di darmi una dieta e di prescrivermi farmaci.
La mia obesità era addensata sull’addome e sul collo. Si trattava certamente, mi disse Saluzzo, di una disfunzione pancreatica abbinata ad una alimentazione errata.
Dovevo dimenticare almeno per un certo periodo di tempo tutti quegli alimenti che anche in minima parte contengono glicidi. In quel preciso istante la mia mente corse alle casse di pompelmi che avevo ingerito e solo quelli, senza perdere un grammo, con il pericolo, avvenuto, di un serrate apocalittico della mia ultima funzione intestinale.
La dieta consigliata mi parve un invito alla Corte dei Re di Spagna: si potevano mangiare a gogò carne rossa, bianca, maiale, salsiccia, prosciutto cotto e crudo, bresaola, pesci di tutti i tipi, freschi e affumicati, frutti di mare, ostriche, crostacei. Mi sentivo già al ristorante “La Smarrita” di Torino, certamente fra i migliori di Italia, dall’amico Moreno.
La lista delle cibarie consentite proseguiva. Alla sveglia era possibile assumere thè, orzo, caffè, con un paio di cucchiai di “Millesimi” un prodotto a base di grano, segala, orzo, lino, sesamo, miglio, uvetta, susine, noci, mandorle, nocciole, zucchero di canna, fieno greco e guaranà. L’indispensabile apporto glicidico giornaliero.
Il “Millesimi” è un integratore alimentare preparato da alcune aziende specializzate nel settore dell’alimentazione eubiotica su indicazione del Dottor Saluzzo. Dotato di un alto valore energetico con un elevato contenuto di fosforo, elemento indispensabile per la memoria, il “Millesimi” è essenziale come apportatore di fibre, oligoelementi e vitamine per un buon stato di salute e per la corretta educazione alimentare.
Elencò poi gli alimenti assolutamente proibiti perché, anche in piccole dosi, inattivano la terapia specifica. Niente latte, latticini, pane, crackers, pasta, frutta, bere bevande dolci, cioccolato, grissini, riso, dolciumi, alcolici.
Non era poi un dramma. Ho sempre preferito un’acciuga o una sardina alle torte bavaresi di mia madre o ai monumentali gelati serviti nei bar e nei ristoranti del Rockfeller Center di New York.
Latte non ne avevo mai bevuto se non direttamente dal seno. La rinuncia dolorosa era il vino, che di norma consumavo solo a pranzo serale.
Per un rinomato buongustaio, Presidente dell’Associazione Gastroenologica, il desinare a salmone di Scozia affumicato e a ostriche “Belon cinque zeri” accompagnate da acqua minerale del 1986 poteva voler dire l’immediata destituzione dalla carica e il dileggio dei soci tutti.
Nessun problema per i superalcolici perché sin da ragazzo ho paragonato whisky, vodka e cognac e benzina, gasolio e petrolio.